Avevo dieci anni quando il giro d’Italia arrivò a Lucca.
Andai sulle mura, come tanti, come forse tutti.
L’aria profumava già di vacanze, anche perché era giugno,
e la scuola o era finita o sarebbe mancato pochissimo.
Ai piedi dovevo avere qualche strano sandalo o zoccoli, addirittura, perché ricordo la scomodità della corsa.
Quando avevo dieci anni mio padre aveva una folta barba nera, un lapis con la gomma in cima e un lavoro alle poste, che a me pareva un posto magico e misterioso insieme.
Mia madre aveva il suo sorriso straordinario, che porta anche adesso, gli occhiali come quelli di Antonello Venditti e la permanente.
Mio fratello aveva sei anni, e sto.
Quando avevo dieci anni c’era Francesco Moser.
A me piaceva Saronni. Non saprei dire perché.
Però sapevo che nel ciclismo era tutto un derby, dovevi tifare uno solo, non si poteva tifarne due.
Mio nonno, per esempio, era di Coppi. E andava pure a dirlo a Bartali, quando mi portava per mano a salutarlo, da vecchi, tutti e due, quali erano.
A Lucca arrivò l’ultima tappa, con la cronometro sulle mura.
Vinse un francese, Bernard Hinault, che in casa mia veniva chiamato Bernarinó,e ci faceva uggia, perché i francesi bisogna che perdano, in bici e al pallone.
E Bernarinó aveva pure fatto il signore, commuovendo a posteriori mia madre: chiaro vincitore del giro aveva rallentato agli ultimi chilometri per lasciare all’italiano Mosè la vittoria di tappa.
Ma noi non lo sapevamo.
E ci speravamo sempre.
Non c’erano cellulari, c’erano le radioline, c’erano i bar, c’erano le televisioni affollate.
A quant’è Mosè da Bernarinó?
Chiedeva mio padre con aria da antico testamento.
Ricordo le corse da un punto all’ altro, da un amico al successivo, ricordo la festa, ma anche l’amarezza della vittoria transalpina, vedo immagini forse false, create dal mio cervello, che somigliano a vecchie foto, a colori ma sbiadite, simili a quelle delle vacanze, in Dolomiti di un paio di anni prima, chissà i miei neuroni cosa hanno pescato per colmare ricordi scoloriti.
Ricordo un mondo diverso, non so se più felice di adesso, di certo spensierato perché spensierata ero io.
I miei genitori forse pensavano al mutuo da pagare, ai soldi per le vacanze, al turno di notte che aspettava mio padre, alle pagelle da scrivere e consegnare mia madre.
Ma io non lo sapevo e quindi correvo, con capelli lunghi e scarmigliati, con gli zoccoli scomodi ai piedi, forse con una maglietta più piccola dei miei gusti perché ancora i gusti non li avevo.
Correvo sulle mura della mia città, dicendo a tutti, con aria mesta che aveva vinto Bernarinó, ma che Mosé ci era andato vicinissimo.
E Lucca era democristiana e sonnolenta, bigotta e bottegaia, chiusa e provinciale, ma magica e elegante.
E dopo trentanove anni mi pare che di tutta quella Lucca si sia perso la magia e l’eleganza, per tenere tutto il resto.
E allora oggi vado all’ arrivo del giro, a cercare quella bimba, suo nonno, la sua famiglia e il suo sorriso, anche se, a dire il vero, credo siano tutti rimasti sulle mura del 1985.
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