Alba

A Lucca i gabbiani si raccontano barzellette al sorgere del sole.

Ridono come matti e si sbertucciano come alla corrida dei dilettanti allo sbaraglio.

Spio i terrazzi altrui, ne invidio uno che trabocca di amaryllis, ne guardo un altro con qualche sdraio e un tavolino, regno mutevole di turisti occasionali.

Adesso c’è silenzio, se tacciono i gabbiani, ancora non si è svegliata la città.

Il cielo è già colorato d’estate, oggi farà caldo, presto sarà utile chiudere le persiane.

Dalla finestra socchiusa entra aria simile ad acqua fresca, un’aria liquida, che sa di fiumiciattolo, che sa di fresco, che sa di nuovo.

Un pipistrello ritardatario torna di corsa verso casa, non si era accorto che fosse così tardi.

Io balocco ancora qualche minuto prima di fare un po’ di caffè e dare la sveglia, la gatta mi guarda un po’ stranita.

Anche lei invidia il terrazzino con gli amaryllis.

Guardiamo insieme fuori dalla finestra e socchiudiamo gli occhi.

Oggi è un altro giorno.

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Primo mare

Un primo giorno di mare.

Approfittando del fatto che il piccolo era fuori con gli scout (al mare anche lui) abbiamo deciso di prenderci una giornata di farniente, di pensieri evaporati, letture da far addormentare chiunque (sia messo a verbale che ho dormito, come un ghiro) di crema protezione cinquanta e, grande classico, piedi bruciati come Pinocchio.

L’acqua era troppo fredda per un vero bagno (di diversa idea il piccolo, che il bagno invece l’ha fatto sostenendo che l’acqua fosse giusta) ma almeno per ammollarsi un pochino gridando e starnazzando.

L’ascolto dei discorsi dei vicini, i cappottini per tutti, il tipo con l’asciugamano tricolore che non capisce che così sulla bandiera ci mette il culo, le tedesche fatte a tedesche, i danesi a danesi e i francesi a francesi.

Come sarebbe a dire in che senso?

I tedeschi che fanno il bagno anche a temperature glaciali, i danesi lunghi lunghi e con le bici, i francesi con la maglia a righe e la borsina di paglia.

Ovvio.

E io?

Io… Beh… Col solito costume da madre badessa, con le infradito riparate col filo da HDC ormai tre vacanze fa, con lo sguardo perennemente in cerca di storie da ascoltare.

Io.

Al mare.

Vorrei tornarci presto.

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Guardami negli occhi

Ho partecipato a un corso di formazione.

Come gioco rompighiaccio dovevamo passeggiare e salutare i compagni di corso scegliendo ogni volta una delle seguenti modalità:

Stretta di mano

Abbraccio

Guardarsi negli occhi per due minuti

Bacio sulla guancia.

All’inizio ho optato per una tedesca stretta di mano, poi qualche abbraccio mi ha sciolto e dopo un paio di bacetti mi sono lanciata con un collega nella sfida dei due minuti.

Ecco. Quella è roba per gente tosta.

Abbiamo messo il timer sul cellulare, ci siamo piantati gli occhi negli occhi e abbiamo dato il via.

I due minuti più lunghi della storia.

Abbiamo parlato a macchinetta, per fare i disinvolti abbiamo ammesso subito il nostro disagio, io ho azzardato spiegazioni antropologiche da due soldi e ci siamo chiesti se il timer del cellulare fosse rotto.

No, era solo passato il primo minuto.

Guardare un estraneo negli occhi e contemporaneamente farsi guardare è quasi come andare in sauna nudi, è imbarazzante senza averne apparente motivo, non stai facendo nulla di male ma ti vergogni e basta.

All’inizio ho guardato un solo occhio.

Poi ho provato a guardare in mezzo alle sopracciglia.

Ma non c’erano occhi lì e mi pareva di barare.

Allora ho provato a guardare l’altro occhio.

Un pezzo di naso.

Il mio collega aveva il setto nasale leggermente deviato, gli occhi nocciola e l’aria gentile.

Ma il tempo non passava mai lo stesso.

Alla fine guardarsi negli occhi è più intimo di un bacio sulla guancia, più intimo di un abbraccio, figuriamoci della stretta di mano.

I due minuti sono finiti e ne siamo stati sollevati.

Abbiamo ripreso a camminare e a scambiare strette di mano come se niente fosse stato.

Ma invece ho imparato cose interessanti, in due minuti piantati negli occhi di un altra persona.

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De gustibus

Al piccolo piace fare merenda al bar.

E grazialcà, direte voi.

E grazialcà, infatti, dico anche io.

Di solito ce lo porta la nonna materna, che anche a lei la cosa piace parecchio.

Con me non succede molto spesso, un po’ non mi va molto, un po’ non c’è il tempo.

Quando succede ama cercare i bar pasticceria, con la mercanzia allettante bene esposta, in modo da valutare, ponderare, scegliere.

La maggior parte delle volte sceglie dei pasticcini.

Ignoro dove abbia imparato quella parola, a me fa molto vecchia zia, ma mi piace.

Sceglie dei pasticcini perché sono piccoli e ne può provare di diversi, la sua filosofia epicurea della vita gli impone di massimizzare sempre le occasioni di godimento.

A me questa cosa fa molto ridere, io non l’ho mai fatto, troppo lucchese dentro per mostrare eccessivo amore per i pasticcini.

Io scelgo una cosa e bona lì.

Lui no.

Lui si gode anche il momento della scelta, soppesa, valuta, scandisce.

Ieri ha indicato col dito la zona dei bignè.

Vorrei questo verde al pistacchio…

E…

Vorrei questo marrone alla nocciola…

E…

Questo bianco alla… Besciamella?

La prossima volta chiedo un bignè alla trippa col sugo…

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Il bimbo della casa di fronte

Sono cresciuta in una casa di fronte.

Che in realtà era la casa accanto, ma non cambia la sostanza delle cose.

Crescere in una corte di campagna vuol dire non essere mai soli, vuol dire frequentare ragazzini di ogni età e spiare il mondo che sarebbe arrivato guardando la vita degli altri, vuol dire a volte rimediarne dai più sgamati e piangere di nascosto, che poi di nascosto neanche poi tanto.

Vuol dire sentire il richiamo di mia madre per cena, come ultima sirena possibile per correre a casa, dopo una giornata passata in casa d’altri, a leggere fotoromanzi, famiglie cristiane, sorrisi e canzoni, a giocare a scala d’estate e a mangiare crema pasticcera a merenda d’inverno.

Vuol dire essere un po’ la figlia anche di altri, che avevano lo stesso indiscutibile potere dei miei.

Ieri ho guardato il piccolo andare da solo dal ragazzino della casa di fronte.

Torna alle sette, ho detto al citofono.

E mi è venuto da sorridere.

Ma so quanto sia prezioso per lui, un microspazio di lontananza, un posto non casa, eppure davanti casa, un posto dove si mangiano cose diverse, in orari diversi e valgono, forse, regole diverse.

Ho aspettato il suono del citofono dalle sette in poi, alle sette e dieci ancora non era arrivato, ma la mamma mi ha scritto, novità, questa, che ai miei tempi non c’era.

Hanno finito un gioco e poi l’altro bimbo, più grande, lo ha di nuovo accompagnato fino da noi.

Era felice.

Del suo piccolo momento nella casa di fronte.

Perché il mondo è un susseguirsi di case di fronte, una dietro l’altra.

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Foto di classe

Oggi il piccolo ha la foto di classe.

Anche da noi, alla elementari, arrivava il fotografo, ci metteva in due file, al centro la maestra, il suo filo di perle, la sua pettinatura come la signora del dado star (io ero assolutamente convinta fosse lei).

Intorno alla maestra tutti noi, bambini identici eppure diversi, chi serio serio, chi sorridente, chi tentava un viso intelligente e chi rideva sotto i baffi per qualche tiro riuscito bene.

E ogni anno la foto cambiava con noi, si evolveva, di classe e di pose, unico punto fisso, la mia posizione nelle retrovie, posto destinato agli spilungoni.

E mentre fuori, in giardino, il ciliegio iniziava a colorarsi di rosso, la strada si faceva più bianca e polverosa, gli abeti rinfrescavano il prato, la scuola piano piano finiva e si sentiva l’odore delle vacanze.

I pantaloncini corti sotto al grembiule, i sandali, il caldo insopportabile all’uscita e il sollievo nel levarlo lasciando le maniche andare da rovescio.

E poi le foto, consegnate solennemente, esposte in cucina per qualche giorno, per la gioia di nonni e zii, e poi dimenticate in qualche cassetto, mescolate a vecchie cartoline, a lettere da adolescenti, cassette registrate alla radio.

Chissà che uomo guarderà da grande la sua foto della seconda elementare.

Sarei felice se ci fosse tenerezza, sulle dita, per maneggiare ricordi così giovani e verdi.

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Punto a capo

Sono di nuovo con l’affanno di sei mesi fa.

Detesto questa sensazione di aria che non basta, che non entra, che fatica a farsi strada.

Non sono più preoccupata, mi hanno ascoltato i polmoni giovedì e stanno bene, sono sani e funzionano.

È il rubinetto dei bronchi, che non vuole capire.

Che non vuole aprirsi.

E mi trovo così, a forzare il respiro, come quei giapponesi alla stazione che zeppano passeggeri su treni troppo piccoli per tutta quella gente.

E mi trovo che non so correre, correre come vorrei e dove vorrei.

Che quando parlo, in classe, ogni tanto resto senza fiato.

Che ogni volta che esco e tira vento mi metto una mano sotto al collo, per evitare che mi faccia male, io, che il vento è un vecchio amico.

E un po’ mi girano.

Ma penso anche a quanto fortunata io sia stata.

A beccare il covid quando mordeva meno forte.

Quando picchiava meno duro, perché io, e gli altri come me, ci eravamo vaccinati.

Penso a cosa mi sarebbe successo se lo avessi incontrato prima.

Prima dei vaccini.

Durante la prima ondata.

Quando si è portato via la gente senza neanche una carezza, un addio, una lacrima.

A me ha lasciato una tosse da vecchia sigaraia e il bisogno di respirare con calma.

Ma fra poco di nuovo passerà.

E per allora sarà il vento, a dovermi rincorrere.

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A letto sporco

Siamo stati al compleanno di un suo amico.

Si è divertito come un pazzo.

Ha giocato, saltato, corso, mangiato, bevuto.

Vissuto.

Come solo i bambini sanno fare.

Bevendo ogni bicchiere di vita fino all’ultima goccia.

Implorando gli ultimi dieci minuti.

Chiedendo rinvii.

Giurando obbedienza eterna in cambio degli ultimi scampoli di giornata.

Alla fine siamo arrivati a casa tardi da fare schifo.

L’ho fatto spogliare di corsa, mettere il pigiama e filare nel letto.

Mi sono messa accanto a lui per dargli un bacio.

E la bocca mi è rimasta appiccicata alla sua guancia.

Era sporco.

Come un maialino.

Era sudicio, appiccicoso, sudaticcio, unto.

E addormentato, come un angelo.

E felice, come un gatto soddisfatto.

Ci sono serate che vale la pena essere un po’ sporchi, per lavarsi c’è tempo, per stare con gli amici il tempo non è mai abbastanza.

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Cambio di stagione

Quando la stagione cambia il piccolo si sveglia alle cinque di mattina.

Perché ha caldo, quindi si scopre, quindi poi ha freddo e si sveglia.

E alle cinque di mattina lo sento arrivare leggero come un gatto di piombo.

Lo infilo nel letto, mugugnando ultimatum che già so che non rispetterò, e provo a riaddormentarmi.

Senza

Successo

Alcuno

Conto fino a cento, poi alla rovescia da cento a uno, mi fingo morta, cerco di non pensare, di non pensare a nulla, ma il mio cervello, diversamente dal mio corpo, pensa invece a tutta valvola, è perfettamente sveglio, lui.

Mi racconta cose, il mio cervello.

Mi pone questioni.

Mi genera ansie casuali girando la ruota di tutte le possibili sfighe del giorno dopo.

Mi va venire falsi ricordi che mi obbligano a guardare l’agenda.

Era ieri il colloquio settimanale?

È domani il collegio?

La verifica, poi, l’ho preparata?

Cerco di spegnere i pensieri, ma più ci provo più diventa un maligno corpo a corpo, un lottare tutto dentro di me, fra il soma, desideroso di requie, e la mente, pronta a vivere.

Spesso, di questo mio rimuginare, si accorge il gattonero, che mi si pianta addosso tipo gatto da stiro e mi fa raggiungere temperature ai limiti della fisica.

Ieri sera, a cena dai nonni, mi ha annunciato trionfale

mamma! Stasera dormo da nonna, così ti riposi!

Facciacculo…

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Bici e pioggia

Siamo stati a vedere il giro d’Italia arrivare a Viareggio.

Sotto una sottile ma noiosa pioggia di maggio.

La pioggia di maggio fa diventare belli.

Diceva la mia nonna.

Col piccolo e la nonna abbiamo applaudito, sventolato l’ombrello, guardato le moto, le macchine, e infine anche loro, i ciclisti, fradici di pioggia.

Al piccolo hanno regalato un pallone, lo ha voluto bianco invece che rosa, dicendo che bianco gli sembrava un mappamondo da creare dal nulla, da colorare a piacere, da immaginare in pace.

Non c’è giorno che quel soldo di cacio non mi insegni qualcosa.

E io che pensavo di portarlo per mano, sono stata portata, ancora una volta, a vedere il giro d’Italia, come quando ero bambina.

Ma invece della mano grossa e calda di mio nonno, stringevo nella mia quella piccola e saggia di mio figlio.

104 anni di differenza fra loro.

E nel mezzo io.

Al giro d’Italia.

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