Prospettive

Ho ricevuto alcune piante per il mio compleanno.

Cinque olivi, una rosa profumatissima, un cuscino della suocera e, soprattutto, un grande desiderio: un pero cotogno.

Si badi bene, non un melo, cotogno, bensì un pero, del quale ignoravo l’esistenza fino a un paio di anni fa.

Un paio di anni fa, d’estate, in Francia, sulle alpi marittime, a casa di Cari Amici, ho mangiato delle pere cotogne spadellate con burro e zucchero, e ho chiesto cosa fossero.

Pere cotogne.

Ah, volevi dire mele?

No no, pere.

Fin da piccola ho sempre sentito parlare delle mele cotogne, soprattutto come espressione di esasperazione del babbuth: par di mele cotogne! era infatti un modo elegante per designare situazioni che avessero come conseguenza il gonfiaggio delle gonadi genitoriali.

Ma mai avevo sentito parlare di pere cotogne.

In più c’è la questione che io ami moltissimo l’albero melo cotogno, ma che trovi del tutto deleterio il frutto, duro, legnoso e di difficile adoprabilità se non come metafora del par di palle di mi pa’.

Un pero cotogno è bello e gentile come il melo, ha i fiori magnifici come il melo, ma ha l’indiscutibile vantaggio di fare pere, spadellabili con burro e zucchero sulle alpi marittime, il che fa una gran bella differenza.

Insomma, al netto delle mie digressioni nonno Simpson, sono molto felice di avere un pero cotogno, cinque olivi e una rosa antica, tutti alti quanto me o più.

E ieri sera, nel mio boschetto portatile (sono tutti ancora in vaso) sognavo di vederli cresciuti, li vedevo dove li vorrei, li sognavo organizzati, stabili, parte del giardino, parte del mio mondo.

E pensavo che questa è la sensazione che regalano le piante, la voglia di futuro, la voglia di sperare, la voglia di vedere come sarà.

La voglia di vedere come continua, la voglia di non fermarsi mai.

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Per far nascere bambini

Non c’è stato colloquio di lavoro nel quale non mi abbiano chiesto se avevo intenzione di avere figli.

Quando sono andata in maternità in azienda è successo di tutto.

Quando ci sono andate mie colleghe, è successo di tutto.

Quando dieci anni fa rincorrevamo il piccolo in giro per il mondo sulla nostra strada abbiamo incontrato medici in gamba e emeriti fascisti.

La strada dell’adozione è una via in salita impedita, ostacolata, incasinata, complicata, ormai quasi impossibile; in Italia da un concetto di biologia malato, all’estero dall’ utilizzo dei bambini come vera e propria arma diplomatica nei confronti delle coppie dei paesi.

Un mutuo costa lacrime e sangue.

Il lavoro viene sempre più precarizzato.

Esattamente come e dove dovrebbero nascere bambini?

Da ragazze e ragazzi che non sono in grado di mantenersi?

Da ragazze e ragazzi che non avranno mai la possibilità di comprare casa?

Da ragazze e ragazzi che diventeranno vecchi incapaci di riprodursi aspettando un contratto a tempo indeterminato?

Guardati da nonni sempre più anziani?

Senza asili?

In classi tagliate così tanto da ritrovarsi in caotici pollai?

E quando sono con qualche disabilità magari in classi separate?

Senza un sostegno adeguato, formato, pensato?

Hanno sbagliato a non farla parlare.

E lei quante cose sta sbagliando con i ragazzi?

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Zitta zitta, cresce l’erba!

Quando non mi chetavo mai Santina mi chiedeva di fare silenzio per ascoltare l’erba crescere.

E io lo facevo, mi mettevo giù, buona, con il viso vicino a un filo d’ erba, e in silenzio aspettavo di sentire lo scricchiolio di cellule in mitosi.

E Santina aveva cinque minuti di pace, mentre tagliava con la falce poggi, bordi, filari.

Abbiamo seminato dell’erba.

E l’erba cresce.

Cresce come i capelli di un neonato, più fitta in alcuni punti, più rada in altri.

Ma i semi hanno messo radici.

E le formiche non possono più portarli via.

E poi hanno fatto spuntare un pochino di verde.

Che è diventato più intenso, un giorno dopo l’altro.

Mentre pioveva, i giorni scorsi, affacciata alla finestra, pensavo che soltanto chi semina è felice della pioggia di domenica, e ero contenta di aver seminato.

Ascoltare l’erba.

Gioire della pioggia di maggio.

Controllare l’altezza di un prato mettendo l’occhio all’altezza delle zolle.

Sono piccole cose, che mi restituiscono l’aria di Farneta da bambina, la voce acuta di Santina in mezzo a un campo, il mio fermarmi, stupita, davanti a un fiore, o un insetto, o uno stecco.

Tornare in campagna è un omaggio alla mia educazione primigenia, a quegli anni felici, passati in un campo, quando all’ asilo giocavano nel prato.

Che fra un prato e un campo passa tutta la differenza del mondo.

Il prato è una decorazione.

Il campo è il lavoro, la cura, la fatica dei grandi.

E l’infinita libertà dei piccoli.

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1985

Avevo dieci anni quando il giro d’Italia arrivò a Lucca.

Andai sulle mura, come tanti, come forse tutti.

L’aria profumava già di vacanze, anche perché era giugno,

e la scuola o era finita o sarebbe mancato pochissimo.

Ai piedi dovevo avere qualche strano sandalo o zoccoli, addirittura, perché ricordo la scomodità della corsa.

Quando avevo dieci anni mio padre aveva una folta barba nera, un lapis con la gomma in cima e un lavoro alle poste, che a me pareva un posto magico e misterioso insieme.

Mia madre aveva il suo sorriso straordinario, che porta anche adesso, gli occhiali come quelli di Antonello Venditti e la permanente.

Mio fratello aveva sei anni, e sto.

Quando avevo dieci anni c’era Francesco Moser.

A me piaceva Saronni. Non saprei dire perché.

Però sapevo che nel ciclismo era tutto un derby, dovevi tifare uno solo, non si poteva tifarne due.

Mio nonno, per esempio, era di Coppi. E andava pure a dirlo a Bartali, quando mi portava per mano a salutarlo, da vecchi, tutti e due, quali erano.

A Lucca arrivò l’ultima tappa, con la cronometro sulle mura.

Vinse un francese, Bernard Hinault, che in casa mia veniva chiamato Bernarinó,e ci faceva uggia, perché i francesi bisogna che perdano, in bici e al pallone.

E Bernarinó aveva pure fatto il signore, commuovendo a posteriori mia madre: chiaro vincitore del giro aveva rallentato agli ultimi chilometri per lasciare all’italiano Mosè la vittoria di tappa.

Ma noi non lo sapevamo.

E ci speravamo sempre.

Non c’erano cellulari, c’erano le radioline, c’erano i bar, c’erano le televisioni affollate.

A quant’è Mosè da Bernarinó?

Chiedeva mio padre con aria da antico testamento.

Ricordo le corse da un punto all’ altro, da un amico al successivo, ricordo la festa, ma anche l’amarezza della vittoria transalpina, vedo immagini forse false, create dal mio cervello, che somigliano a vecchie foto, a colori ma sbiadite, simili a quelle delle vacanze, in Dolomiti di un paio di anni prima, chissà i miei neuroni cosa hanno pescato per colmare ricordi scoloriti.

Ricordo un mondo diverso, non so se più felice di adesso, di certo spensierato perché spensierata ero io.

I miei genitori forse pensavano al mutuo da pagare, ai soldi per le vacanze, al turno di notte che aspettava mio padre, alle pagelle da scrivere e consegnare mia madre.

Ma io non lo sapevo e quindi correvo, con capelli lunghi e scarmigliati, con gli zoccoli scomodi ai piedi, forse con una maglietta più piccola dei miei gusti perché ancora i gusti non li avevo.

Correvo sulle mura della mia città, dicendo a tutti, con aria mesta che aveva vinto Bernarinó, ma che Mosé ci era andato vicinissimo.

E Lucca era democristiana e sonnolenta, bigotta e bottegaia, chiusa e provinciale, ma magica e elegante.

E dopo trentanove anni mi pare che di tutta quella Lucca si sia perso la magia e l’eleganza, per tenere tutto il resto.

E allora oggi vado all’ arrivo del giro, a cercare quella bimba, suo nonno, la sua famiglia e il suo sorriso, anche se, a dire il vero, credo siano tutti rimasti sulle mura del 1985.

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Proud

Non ero così contenta da quando il pride di Dresda passava sotto alla mia finestra, con la gioventù luterana che ballava la capoeira, gli impiegati più belli del mondo sul furgone della Deutschbank, nonno Marx con i capelli rainbow, e il servizio d’ ordine fatto da ragazze e ragazzi sottili come giunchi e sorridenti come un giorno di sole.

Il pride nella mia città.

La vita vera, che entra nelle mura della città, le famiglie di ogni colore, tutti diversi e tutti uguali, tutti colorati e tutti sotto lo stesso cielo.

Finalmente un evento che ha un senso, fra le luci di Natale, quelle di Pasqua, le tigri di carnevale, le palle del giro (belle, fra l’altro, sul serio, belle, dai).

Voglio vederci danzare, voglio vederci narrare, voglio vederci felici rivendicare i diritti di tutti.

Voglio vedere una città che si apre, che accoglie, che si fa invadere non solo ai soldi, ma ai diritti, alle famiglie, ai bambini, ai ragazzi.

Dedico questa scelta bellissima a tutti i miei alunni, a ogni loro scelta di vita e di esistenza, affinché si sentano, tutte e tutti, rispettati, affinché si sentano, tutte e tutti, benvenuti a casa loro.

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la cravatta al maiale

casa di nonna è un cantiere.

e un cantiere, si sa, è un casino.

calcinacci, polvere, detriti, sabbia, calcina, attrezzi, vecchie cose tolte dalla casa che aspettano di essere portate via.

come è normale che sia.

ciononostante non riusciamo a non occuparci del contorno.

come mettersi a spolverare durante un terremoto.

asciugarsi le mani durante una piena.

spennellare la sabbia al mare.

ogni sabato, ogni domenica (se non piove), ogni momento libero, tagliamo canne, togliamo rovi, rinvasiamo piante, seminiamo erba, prezzemolo, basilico, fiori e tutto quello che ci passa per la testa.

potiamo, scorciamo, sistemiamo, accatastiamo, curiamo.

curiamo un giardino con i gigli di mia nonna che stanno fiorendo accanto al water che aspetta di essere portato via dal camion.

curiamo le piante sotto al leccio accanto al mucchio dei detriti.

poco oltre lo spiazzo dove fanno il cemento abbiamo salvia, rosmarino, lavanda, gli agrumi, il gingko, gli altri alberi che aspettano la dimora definitiva.

dietro al campo lavorato dalle ruspe cerco di curare il pesco che ha la bolla.

controllo il nespolo, ai cui piedi giace l’antenna della televisione che è stata tolta dal tetto.

ieri ci siamo guardati.

ti rendi conto, ho detto, che siamo qui ogni giorno a mettere la cravatta al maiale?

hdc mi ha guardata.

sì, ma è un maiale bellissimo.

un bellissimo maiale.

decisamente.

e allora, scegliamola bella, questa cravatta!

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Pronti, via

Inizia oggi una nuova piccola grande avventura del piccolo.

Un espansore palatale cercherà di sistemare un po’ la bocca.

L’intenzione della dentista è quella di tentare una incisivizzazione dei canini, portandoli in avanti e limandoli all’ occorrenza.

Se funziona potrà, forse, evitargli l’autoinnesto di osso da un pezzettino di anca, operazione fattibile, ma se si può evitare, perché no.

Insieme all’ espansore dovrà portare una specie di maschera esterna, fortunatamente solo di notte o quando è a casa, perché non è esattamente una roba socialmente utile.

Ma non corriamo troppo.

Intanto andiamo, e mettiamo questo nuovo giocattolo, che so che lo portano tanti altri bimbi anche senza labiopalatoschisi.

E vediamo come se la cava.

I primi giorni forse non saranno semplici, poi si abituerà.

Un passo per volta, un passo per volta si arriva ovunque.

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Cucù, cucù, aprile non c’è più…

… È ritornato maggio, al canto del cucù!

Così mi cantava mia nonna quando ero piccola, e forse dovrei iniziare a farlo agli studenti da stamani.

È iniziato maggio, il mese nel quale occorre rincorrere i più recalcitranti sulle scale per organizzare interrogazioni di recupero, nel quale occorre spiegare a classi intere che no, non si può spostare l’ultima verifica perché se la cannano, e io lo so, che la cannano, poi per rimediare è un casino, nel quale lo so che mi toccherà cedere e far recuperare i casi più disperati con argomenti a piacere o presentazioni power point che leggeranno vergognosamente sbagliando parole che non conoscono e che hanno messo perché trovate chissà dove.

E il tutto dribblando gite, conferenze, mostra e dimostra, giornate speciali, tornei sportivi e tutta una lunga serie di cose senza dubbio nobili e necessarie ma che generano cortocircuiti clamorosi.

Prof, mercoledì la scuola è chiusa, (passa il giro d’Italia, NdR) rimandiamo la verifica di venerdì?

No!

Allora la scorciamo?

No!

Per favore…. (Occhioni)

Sgrunt, vedremo!

A maggio i giorni previsti per le verifiche vanno tenuti stretti, con le unghie e con i denti. Se il giorno della verifica capita una gita, una conferenza, un’uscita, riprogrammarla è impossibile.

Lunedì?

Abbiamo versione di greco e interroga a filosofia!

Giovedì?

Latino e inglese.

Il lunedì dopo?

Siamo a Firenze per il cippirimerlo brematurato.

Giovedì successivo?

Compito di matematica e poi esercitazione antincendio.

E così via fino alla fine dell’anno.

Stamani mi aspetto già i primi questuanti, i rappresentanti di classe, scelti astutamente fra coloro con gli occhi più grandi e lucidi, bussare a fine lezione per chiedere un rimando, uno sconto, una grazia tipo la madonna.

Resistere resistere resistere.

Fra poco più di un mese sarà finita e giugno sanerà le nostre ferite.

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La differenza fra cinema e teatro

Il piccolo ci ha messo un po’ a trovare il senso delle riprese cinematografiche.

Si distraeva, non capiva la differenza fra le prove e il ciak, non si concentrava.

Ieri si è impegnato e ha cercato di fare del suo meglio.

Ti piace di più il cinema o il teatro quindi?

Ah, il teatro! Nel cinema ti chiudono in una scatolina e ti guardano su un telo mille volte. Ma in nessuna delle mille volte ci sei te davvero.

A teatro invece ogni volta si alza il sipario e c’è la gente, e te  vedi loro e loro vedono te.

E mentre ascoltavo il mio bimbo di nove anni darmi una lezione sul fare spettacolo, pensavo che i bambini sanno andare al succo delle cose, sanno vedere l’essenziale e te lo sanno raccontare.

Lui per esempio è stato felice di aver portato a casa il palloncino rosso di scena.

La vita è fatta di priorità…

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Esplosa

La mia città sta esplodendo.

Le strade del centro sono così piene di turisti con l’ombrellino che non si riesce a passare.

Questo fine settimana c’era la mostra storica per Santa Zita, un festival sulla carta, le riprese del film, Lucca classica, la banda, tutti i negozi aperti, ci mancava scendesse anche la Madonna a fare la spesa e poi eravamo al completo.

È così ormai da mesi, senza interruzione, un divorare di cose, senza logica, bar, ristoranti e negozi pieni a scoppiare, rifiuti ovunque, merde di cane che ve lo dico a fa’, un paese dei balocchi senza tregua, una città e i suoi abitanti letteralmente dati in pasto ai turisti, senza alcuna regola, come una macchina tirata al massimo in autostrada per vedere l’effetto che fa.

A me fa l’effetto di girare in un mondo di plastica, di essere anche io di plastica, una comparsa per turisti che mi guardano prendere l’acqua alla fontana come si guarda una giraffa allo zoo.

La casa di nonna sta procedendo, anche e soprattutto grazie all’ aiuto prezioso di amici cari.

Mi piace pensare che sarà un posto dove staremo bene.

Un posto normale, dove bere una birra in giardino.

Un posto aperto e gentile.

E lontano da questa Disneyland.

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