Ho ricevuto alcune piante per il mio compleanno.
Cinque olivi, una rosa profumatissima, un cuscino della suocera e, soprattutto, un grande desiderio: un pero cotogno.
Si badi bene, non un melo, cotogno, bensì un pero, del quale ignoravo l’esistenza fino a un paio di anni fa.
Un paio di anni fa, d’estate, in Francia, sulle alpi marittime, a casa di Cari Amici, ho mangiato delle pere cotogne spadellate con burro e zucchero, e ho chiesto cosa fossero.
Pere cotogne.
Ah, volevi dire mele?
No no, pere.
Fin da piccola ho sempre sentito parlare delle mele cotogne, soprattutto come espressione di esasperazione del babbuth: par di mele cotogne! era infatti un modo elegante per designare situazioni che avessero come conseguenza il gonfiaggio delle gonadi genitoriali.
Ma mai avevo sentito parlare di pere cotogne.
In più c’è la questione che io ami moltissimo l’albero melo cotogno, ma che trovi del tutto deleterio il frutto, duro, legnoso e di difficile adoprabilità se non come metafora del par di palle di mi pa’.
Un pero cotogno è bello e gentile come il melo, ha i fiori magnifici come il melo, ma ha l’indiscutibile vantaggio di fare pere, spadellabili con burro e zucchero sulle alpi marittime, il che fa una gran bella differenza.
Insomma, al netto delle mie digressioni nonno Simpson, sono molto felice di avere un pero cotogno, cinque olivi e una rosa antica, tutti alti quanto me o più.
E ieri sera, nel mio boschetto portatile (sono tutti ancora in vaso) sognavo di vederli cresciuti, li vedevo dove li vorrei, li sognavo organizzati, stabili, parte del giardino, parte del mio mondo.
E pensavo che questa è la sensazione che regalano le piante, la voglia di futuro, la voglia di sperare, la voglia di vedere come sarà.
La voglia di vedere come continua, la voglia di non fermarsi mai.
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