
Il nostro albero di Natale ha dodici anni e un po’ di polvere.
Ogni anno mi viene voglia di avere un albero “vero”, di legno e aghi, ma poi mi dispiace per il vecchio albero, comprato il primo anno di vita lucchese, e testimone di ogni cambiamento.
Ricordo quando prima di rimetterlo in soffitta speravamo entro il Natale successivo di poterlo montare in tre, e quante volte abbiamo riaperto la scatola l’anno successivo con un po’ di magone.
Ricordo ogni volta che le gatte ci si sono arrampicate, accontentandosi di un albero di plastica in mancanza di alberi veri nelle loro vite.
Poi ricordo la prima foto, col piccolo nel marsupio (e la denominazione piccolo era decisamente azzeccata, era un Pollicino da scatola di fiammiferi) e la manina protesa verso una pallina.
Poi le decorazioni fatte al nido, e alla materna.
Che si sono sovrapposte e mantenute, stratificando l’albero come una successione geologica esistenziale.
Adesso il nostro albero è una cacofonia di cose diverse, decorazioni tedesche, Ikea, cinesi, lucchesi.
Ci sono ignobili palline fatte in serie e comprate ai grandi magazzini e piccole opere di artigianato comprate ai mercatini intorno casa.
Così è un albero di Natale, è una storia, che ogni anno cambia un pochino ma che si racconta e che racconta, la storia un po’ matta della casa e dei suoi abitanti.