Sono entrati, uno alla volta, emozionati e, devo dirlo, bravissimi.
Li ho visti grandi, organizzati, seri, con il vocabolario appropriato, con i riferimenti corretti, con la maturità che dovevano dimostrare di avere.
I primi cinque maturati di ieri, chi con la mamma, chi da solo, chi con lo zaino chi con una penna e la carta di identità in mano.
E alla fine di ogni colloquio, li ho guardati, uno a uno, riporre le loro cose, chiudere la borsa, salutare, ringraziare e andarsene, varcando, per l’ultima volta, la porta dell’aula magna.
L’ultima pagina del capitolo, del libro, della saga personale di ognuno di loro.
Li ho guardati fino a che non sono usciti, fino a che il collega non ha chiuso la porta alle loro spalle, per lasciarci il tempo di valutare e fare il punto.
Mi sono immaginata le farfalle nella pancia, la gioia della fine e la consapevolezza di qualcosa che non tornerà più.
Ricordo quando capitò a me.
Mi sono divertita e sono stata molto bene a scuola.
Ma sognavo l’università, sognavo di crescere e di prendere il treno, sognavo di studiare cose bellissime.
E il giorno dell’orale a quello pensavo, al futuro con curiosità e impazienza, e al passato con tenerezza.
E ieri ho ascoltato una ragazza tradurre e spiegare Seneca…
“Estremamente breve e travagliata è la vita di coloro che dimenticano il passato, trascurano il presente, temono il futuro: giunti al momento estremo, tardi comprendono di essere stati occupati tanto tempo senza concludere nulla.”