ho consegnato al mammuth le piantine di pomodoro da piantare a farneta.
la signora me le aveva messe in un sacchetto, abbastanza grande da non sciuparle, abbastanza piccolo per portarlo in giro per le orecchie.
dalla fessura del sacchetto arrivava fino al naso l’odore penetrante delle foglie del pomodoro.
il pomodoro sa di orto, di estate, di caldo, di verderame, di sudore, di pane e cipolla condita con l’aceto, sa di terra annaffiata, di piedi sporchi, di giochi, di compito per le vacanze messo da parte e trascurato, di campi, di corse, di fratello piccino che gioca a pallone, di gatto che dorme all’ombra della lavanda del giardino, di amaca messa all’ombra dell’abete di natale diventato grande.
sa di piccoli lavori richiesti dai grandi, annaffiare il giardino, tagliare l’erba, scegliere le patate e dividerle, quelle piccole in un canestro, quelle grandi in un altro, sgranare i piselli o i fagioli, scornettare i fagiolini, andare nell’orto a prendere una cipolla, sceglierla, svellerla (che strano verbo, a lucca si dice “svergere”) e pulirla nell’orto, in modo da lasciare le lunghe orecchie verdi sulla terra rapinata, per proteggerla dal sole e per ridarle un po’ di quello che la cipolla per crescere si era presa.
tutto questo avevo nel sacchetto, mentre piano piano lo portavo alla bicicletta, un mondo chiuso in due piantine profumate, che si facevano portare docili come un cagnolino.