un amico in vacanza in germania mi racconta di essere a jena.
poco dopo di essere a erfurt.
e io ricordo di aver fatto quella strada sui sedili posteriori di una trabant verde pisello.
sedili di peluche rosa, per la precisione.
ventidue anni fa, sempre per la precisione, ma non sottilizziamo.
quando ancora non sapevo che della germania, e in particolare della germania che stava una volta dall’altra parte, mi sarei perdutamente innamorata.
all’epoca la germania era diventata una sola nazione da pochissimo, i supermercati in turingia avevano ancora l’aspetto vuoto e in bianco e nero che poi la germania stessa ha dimenticato, la pasta era locale, di grano tenero e tremenda, collosa e immangiabile, sul tavolo da pranzo il succo di banana per accompagnare la carne in umido e la trabant era un mezzo ancora comune, specialmente fra i ragazzi giovani.
sembrano passati cento anni invece di venti, il tempo è volato, per me, per la turingia, per la sassonia, per jena, per erfurt, per dresda.
la mia amica bionda mi raccontava che quando cadde il muro una delle cose di cui si rese conto per prima fu l’arrivo di frutta esotica diversa dalle banane.
“di banane ce ne erano in grandi quantità, arrivavano da cuba, ma non avevo mai mangiato ananas in scatola. ne comprai una al supermercato, la mangiai da sola, nascosta in camera e nascosi il barattolo in fondo al sacchetto della spazzatura per non farmi scoprire dai miei”.
“perché, non volevano?”
“no, perché eravamo abituati che una cosa del genere si dovesse condividere fra tutti, era molto brutto mangiare una scatola di ananas tutta intera e tutta da sola!”
quando sono andata a vivere a dresda, di quella germania non restava quasi più nulla.
l’edificio della stasi trasformato in hotel di lusso.
hans juergen jaegermeister e i suoi racconti di quando era un ragazzino.
le trabant usate per il “trabisafari” in giro per la città.
i troedel (robivecchi) traboccanti di tutto quello che la gente aveva buttato via, quando oltre alle scatole di ananas arrivò anche il consumismo sfrenato.
credo che nessuno rimpianga la DDR, ma alcuni suoi semplici modi di vivere, forse andrebbero recuperati e sperimentati, non la DDR dei grigi e violenti burocrati, la DDR delle persone che dentro la DDR vivevano, sognavano e guidavano trabant verdi su autostrade traballanti.
Il problema è che la semplicità della DDR non derivava da una specifica volontà dei suoi cittadini; qualcosa tipo la frugalità campagnola dei nostri nonni. Era qualcosa che andava di pari passo con la dittatura violenta, con l’operazione fisica e psicologica operata da quelli che sulla carta volevano tutti uguali ma che poi in realtà affamavano la gente (ed accumulavano ricchezze e privilegi per loro stessi)
—Alex
Tutti avremmo da imparare la frugalità dai nostri nonni, ci riesce difficile perché non siamo nel bisogno come loro.
Mia madre era di Dresda e non ho mai conosciuto la maggior parte dei miei numerosi cugini. C’erano contatti postali e loro potevano ricevere un pacchetto a persona al mese. I russi erano severi, il pacco non doveva superare il mezzo chilo, compresi carta e spago, però arrivava sempre. Ero orfana di padre ed era uno sforzo economico ma mia madre inseriva spesso di nascosto un piccolo oggetto d’oro perché potessero rivenderlo al mercato nero. Allora scriveva: “Lavate bene il riso” e loro frugavano prima di metterlo a bollire. Uno zio era stato imprigionato e fatto morire di fame dai nazisti mentre il nonno, mai iscritto al partito nazista, era stato per questo beneficato dai russi di un’ottima pensione con la quale in pratica manteneva tutti. Due cugini provarono a fuggire nascondendosi sotto i sedili in treno ma furono subito acciuffati e messi in galera per un anno finché l’ovest non li riscattò. Non furono vessati, ma sempre prigione era. Però avevano scuole e sanità gratuite, affitti bassissimi in orrendi casermoni, libera frequentazione della chiesa, in cambio però dell’iscrizione ai giovani pionieri. Quando mia madre ottenne finalmente il permesso di visitarli trovò una Dresda distrutta (e pianse molto), negozi sguarniti (“nemmeno il semolino!”), pochi vecchi amici sopravvissuti al bombardamento a tappeto sull’Elba, però un nipote le chiese una radiolina per quando andava sulla sua barca a vela grande e bella.
Cosa voglio dire con questa sparata? Nulla, davvero, a parte il fatto che da bambina mi trattavano male in Italia perché tedesca e altrettanto male in Germania perché italiana!
Angela, grazie, mi hai fatto venire i peli ritti sulla schiena. Grazie davvero. Leggerti è stato emozionante.
grazie, detto da te…
Che ricordi! Anche io sono stata proprio in Turingia (Eisenach, la casa natale di Bach, il castello di Wartburg, grandi emozioni!) immediatamente dopo l’apertura delle frontiere. E anche io ho vissuto, anche se da turista, quella situazione di dignitosa desolazione: case dagli intonaci vecchi e scrostati, negozi quasi vuoti, trattorie con la latrina in cortile, automobili verde pisello… Allora avevo pensato che, in realtà, il tutto mi ricordava molto i nostri paesini e piccole città degli anni Cinquanta, prima della ricostruzione, del boom economico e del consumismo di massa. Ma non so onestamente dire cosa fosse meglio!
Grazie per il film Lucia e grazie Angela per le emozioni del racconto